A
sedici anni dall’attentato alle Torri gemelle il tema del terrorismo suicida
continua ad essere di particolare interesse. Esistono dei motivi forti che
spingono un giovane islamico, manipolato da predicatori più anziani, a
scegliere di morire per ideali religiosi, che nell’Islam hanno anche la
funzione di collanti ideologici e politici. Diversamente da quello cristiano il
martirio islamico non si limita al sacrificio passivo di sé stesso ma richiede
iniziative per sopprimere i presunti infedeli: la vocazione ad immolarsi si
fonde con quella omicida, la volontà di uccidere si unisce a quella di morire.
Il martirio è un’attrattiva perché consente la santificazione, cioè
il diritto di entrare in Paradiso con i privilegi che competono agli eroi
della Jihad. L’importanza della morte è tale che, se
l’attentatore sopravvive, la missione può paradossalmente ritenersi fallita. Un
altro dato da considerare è la tenera età degli attentatori suicidi. I giovani,
disorientati dal vuoto etico cioè dall’assenza di valori di riferimento,
essendo alla ricerca di un’identità definita, sono vulnerabili alla
propaganda jihadista, e ne subiscono la seduzione. Nell’atto
suicida c’è inoltre una componente narcisistica che predispone alla rinuncia
della propria vita: l’iniziativa terroristica trasforma un ordinario individuo
in un angelo vendicatore che godrà della gloria di una fama postuma. La
sacralità rituale che precede l’atto suicida, ben descritta nel film Paradise
Now, attribuisce un duraturo protagonismo ad individui educati
nell’indifferenza, ed appaga un desiderio di affermazione e di
autorealizzazione. Da questo punto di vista quindi l’opzione suicida
costituisce il compenso ad una frustrazione piuttosto che fondarsi un richiamo
religioso. Già nella seconda metà dell’800, Dostoevskij scriveva che …gli
uomini rifiutano i profeti e li uccidono. Ma adorano i martiri e onorano coloro
che hanno ucciso. Roberto Rapaccini