Per
una perversa congettura secondo cui lo sviluppo dell’industria bellica
nazionale può esercitare ripercussioni positive sull’economia, il settore
produttivo legato alle attività militari di difesa ha sempre goduto di
privilegi presumibilmente alimentati anche da pressioni lobbistiche, che si
attivano per favorire l’acquisto da parte dello Stato di armi costose non
raramente destinatarie di insostenibili spese di manutenzione, scelte secondo
tipologie indicate dalle aziende produttrici piuttosto che in base alle
esigenze di sicurezza. Nonostante l’ingente impegno finanziario l’Italia è
impreparata da un punto di vista logistico a fronteggiare le minacce emergenti.
In proposito è opportuno distinguere la security dalla safety. Per security si
intendono i servizi di sicurezza attuati dalle forze dell’ordine; il concetto
di safety riguarda invece le misure e i dispositivi di
carattere strutturale a tutela dell’incolumità delle persone. Per prevenire
attacchi terroristici sul territorio e on-line disponiamo di
una security di alto profilo, mentre per quanto riguarda
la safety non abbiamo bisogno di carri armati,
cacciabombardieri e portaerei, ma di investimenti mirati alla cyber-difesa,
che consentano quindi di contrastare attacchi informatici che potrebbero anche
mettere fuori uso le armi tradizionali. Come è stato autorevolmente
osservato da uno storico britannico della prima metà del XX sec. riprendendo
una frase dell’intellettuale francese G. Clemenceau, la guerra è una cosa
troppo seria per essere affidata solo a militari e politici. Roberto Rapaccini