RASSEGNA STAMPA S.

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• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

martedì 11 novembre 2025

XI JIN PING, È LUI L’AUTORE DELLA NUOVA CINA - IL RACCONTO DI POTERE, ORDINE E AMBIZIONE

 



Nell’ascesa di Xi Jinping si riflette un intero Paese: la memoria di un secolo difficile, l’orgoglio della rinascita, la paura del caos e la promessa di stabilità. Il giovane Xi nelle grotte di Liangjiahe, tra i campi dello Shaanxi, impara che la povertà non è un concetto ma una vita quotidiana. È lì che  ha capito “di che cosa la gente ha davvero bisogno”. Da quel racconto, ripetuto come un filo rosso, discende la sua idea di governo: lo Stato-partito come argine al disordine, la disciplina come condizione dello sviluppo, l’unità come premessa del sogno collettivo. Quando nel 2012 diventa guida del Partito e poi del Paese, la Cina è già un gigante. Ma è un gigante nervoso: l’edilizia corre più della demografia, la ricchezza si concentra, la corruzione scava varchi di sfiducia, l’ideologia arretra davanti al culto del successo. Xi legge tutto questo come una frattura nel patto tra popolo e Partito. La sua risposta è una virata di tono e di sostanza: riportare il Partito al centro di ogni cosa, ricucire la trama dell’autorità, mostrare che lo Stato può essere insieme garante morale e regista economico. Da qui la grande campagna anticorruzione — “tigri e mosche”, alti papaveri e funzionari di base — non solo come epurazione ma come messaggio: nessuno è sopra le regole, e le regole le detta il Partito. La stessa idea si vede nelle scelte economiche. La Cina che Xi eredita ha superato il tempo delle fabbriche a basso costo, ma porta il peso di una crescita diseguale: città lanciate nel futuro e province rimaste indietro, colossi digitali privati più veloci dei regolatori, finanza ombra troppo creativa, un settore immobiliare che ha confuso mattone e prosperità. La sua ricetta ha due parole chiave: “prosperità comune” e “doppia circolazione”. La prima significa correggere gli eccessi, allargare il ceto medio, usare il bilanciere pubblico per distribuire meglio opportunità e servizi; la seconda invita a contare di più sulla domanda interna e sull’autosufficienza tecnologica, senza rinunciare ai mercati globali ma riducendo le dipendenze critiche. È un passaggio delicato: frenare gli abusi senza spegnere l’iniziativa privata, riordinare la finanza senza soffocare il credito, sostenere i consumi senza deragliare i conti. I contraccolpi — crisi del mattone, fiducia intermittente — mostrano quanto sia stretto il sentiero, ma non ne cambiano la direzione. C’è poi la politica della conoscenza, che è anche la politica del potere nel XXI secolo. Chip, intelligenza artificiale, reti, batterie, spazio, standard: qui la Cina di Xi vuole smettere di inseguire e cominciare a dettare il passo. Le campagne per la sovranità tecnologica non nascono dall’autarchia, ma da un calcolo: se i nodi critici restano all’estero, la vulnerabilità è strutturale; se sono “a casa”, lo sviluppo è meno esposto a sanzioni, controlli e ricatti di filiera. È la stessa logica che guida l’energia e il clima: puntare su solare, eolico, veicoli elettrici non solo per ragioni ambientali, ma perché lì si gioca la prossima egemonia industriale. Dietro le cifre c’è un progetto politico: trasformare la scala cinese in influenza normativa, far sì che “come produce la Cina” diventi “come produce il mondo”. All’esterno la postura è cambiata insieme al racconto. Per anni la Cina ha preferito “nascondere la forza e aspettare il momento”. Con Xi l’ora è suonata. La Nuova Via della Seta ha cucito porti, ferrovie e corridoi energetici dall’Asia all’Africa, disegnando attorno a Pechino una geografia di interdipendenze. A questo si è affiancato un linguaggio nuovo: “comunità dal destino condiviso”, “civiltà diverse ma eguali”, “sicurezza indivisibile”. È la proposta di un ordine multipolare in cui nessuna potenza — soprattutto gli Stati Uniti — possa definire da sola le regole. La Cina si presenta come partner pragmatico del Sud globale, meno interessata a esportare un modello politico che a scambiare infrastrutture per influenza. Ma ogni espansione porta con sé resistenze: i Paesi debitori chiedono trasparenza, l’Europa si difende con indagini e dazi mirati, Washington costruisce cordoni tecnologici attorno a chip e dati. La competizione è “a bassa intensità alta”: poche bandiere issate, moltissimi standard contesi. Sullo sfondo la partita più sensibile resta Taiwan. Per Pechino è una questione di sovranità e storia, il tassello mancante della “rinascita nazionale”; per l’isola è la continuità del proprio sistema politico; per gli Stati Uniti è il cuore di un equilibrio regionale e di filiere tecnologiche decisive. Xi ha innalzato il livello di pressione, militare e simbolica, ma ha anche interesse a evitare incidenti non controllabili. La strategia è tenere aperti i canali e alzare i costi di una rottura, mostrando che il tempo gioca per la Cina. È un equilibrio instabile, e proprio per questo richiede nervi saldi a tutte le capitali. Il capitolo dei diritti e delle libertà è quello in cui lo sguardo occidentale inciampa più spesso. Hong Kong ha visto restringersi lo spazio civico, lo Xinjiang resta al centro di critiche severe e di smentite altrettanto ferme, il cyberspazio è vigilato con strumenti che intrecciano sicurezza, ideologia e industria. Xi considera questa architettura una protezione necessaria in un Paese vastissimo, con diseguaglianze interne e un passato segnato dal trauma del caos politico. I suoi critici la vedono come il prezzo pagato in pluralismo, creatività e fiducia degli investitori. Sul piano militare, la modernizzazione dell’Esercito Popolare segue tappe scandite e obiettivi nitidi: forza congiunta, dominio dell’informazione, proiezione marittima. Non è un riarmo cieco, è un riarmo coerente con l’idea di potenza “di livello mondiale” entro metà secolo. Questo riarmo non significa necessariamente cercare lo scontro: significa voler sedersi a tavoli dove, senza hard power, la voce di Pechino sarebbe più bassa. Quali sono allora gli obiettivi, al di là degli slogan? Nel breve: rimettere in sesto la domanda interna senza riaccendere bolle, stabilizzare il credito locale, dare fiducia a famiglie e imprese. Nel medio: conquistare autonomia nei colli di bottiglia tecnologici, salire di gamma nell’export, gestire con misura la Via della Seta di “seconda generazione” (meno quantità, più qualità). Nel lungo: arrivare al 2049 con una Cina ricca, ordinata, rispettata; un Paese che non solo fabbrica, ma progetta; che non solo vende, ma detta regole; che non solo cresce, ma distribuisce. Le prospettive dipendono da incastri sottili. Se la “prosperità comune” diventa un’altra parola per dir “paternalismo economico”, l’innovazione si inaridisce. Se la “doppia circolazione” scivola nell’autosufficienza autarchica, la scala cinese perde ossigeno globale. Se la competizione con gli Stati Uniti si irrigidisce in blocchi chiusi, l’interdipendenza  smette di essere un cuscinetto. Ma se, al contrario, Pechino riuscirà a calibrare regole chiare e margini di libertà, se il welfare sosterrà davvero i consumi, se i nodi tecnologici verranno sciolti senza muri invalicabili, allora il progetto di Xi non è affatto impossibile: è la versione cinese di una modernità ordinata, con i suoi costi e i suoi dividendi. In fondo, il giudizio su Xi e sulla Cina si gioca da un lato sulla capacità di mobilitare risorse, costruire infrastrutture, dettare priorità; dall’altro sulla flessibilità necessaria a un’epoca che cambia in fretta. Il sogno cinese è un bene condiviso e il Partito il suo custode, ma anche fuori dai confini deve convincere senza chiedere in cambio silenzio o deferenza. Tra queste due verità, politiche ed economiche, si deciderà il peso della Cina nel mondo — e il posto di Xi nella storia del suo Paese. Roberto Rapaccini