Nell’ascesa
di Xi Jinping si riflette un intero Paese: la memoria di un secolo difficile,
l’orgoglio della rinascita, la paura del caos e la promessa di stabilità. Il
giovane Xi nelle grotte di Liangjiahe, tra i campi dello Shaanxi, impara che la
povertà non è un concetto ma una vita quotidiana. È lì che ha capito “di che cosa la gente ha davvero
bisogno”. Da quel racconto, ripetuto come un filo rosso, discende la sua idea
di governo: lo Stato-partito come argine al disordine, la disciplina come
condizione dello sviluppo, l’unità come premessa del sogno collettivo. Quando
nel 2012 diventa guida del Partito e poi del Paese, la Cina è già un gigante.
Ma è un gigante nervoso: l’edilizia corre più della demografia, la ricchezza si
concentra, la corruzione scava varchi di sfiducia, l’ideologia arretra davanti
al culto del successo. Xi legge tutto questo come una frattura nel patto tra
popolo e Partito. La sua risposta è una virata di tono e di sostanza: riportare
il Partito al centro di ogni cosa, ricucire la trama dell’autorità, mostrare
che lo Stato può essere insieme garante morale e regista economico. Da qui la
grande campagna anticorruzione — “tigri e mosche”, alti papaveri e funzionari
di base — non solo come epurazione ma come messaggio: nessuno è sopra le
regole, e le regole le detta il Partito. La stessa idea si vede nelle scelte
economiche. La Cina che Xi eredita ha superato il tempo delle fabbriche a basso
costo, ma porta il peso di una crescita diseguale: città lanciate nel futuro e
province rimaste indietro, colossi digitali privati più veloci dei regolatori,
finanza ombra troppo creativa, un settore immobiliare che ha confuso mattone e
prosperità. La sua ricetta ha due parole chiave: “prosperità comune” e “doppia
circolazione”. La prima significa correggere gli eccessi, allargare il ceto
medio, usare il bilanciere pubblico per distribuire meglio opportunità e
servizi; la seconda invita a contare di più sulla domanda interna e
sull’autosufficienza tecnologica, senza rinunciare ai mercati globali ma
riducendo le dipendenze critiche. È un passaggio delicato: frenare gli abusi
senza spegnere l’iniziativa privata, riordinare la finanza senza soffocare il
credito, sostenere i consumi senza deragliare i conti. I contraccolpi — crisi
del mattone, fiducia intermittente — mostrano quanto sia stretto il sentiero,
ma non ne cambiano la direzione. C’è poi la politica della conoscenza, che è
anche la politica del potere nel XXI secolo. Chip, intelligenza artificiale,
reti, batterie, spazio, standard: qui la Cina di Xi vuole smettere di inseguire
e cominciare a dettare il passo. Le campagne per la sovranità tecnologica non
nascono dall’autarchia, ma da un calcolo: se i nodi critici restano all’estero,
la vulnerabilità è strutturale; se sono “a casa”, lo sviluppo è meno esposto a
sanzioni, controlli e ricatti di filiera. È la stessa logica che guida
l’energia e il clima: puntare su solare, eolico, veicoli elettrici non solo per
ragioni ambientali, ma perché lì si gioca la prossima egemonia industriale.
Dietro le cifre c’è un progetto politico: trasformare la scala cinese in
influenza normativa, far sì che “come produce la Cina” diventi “come produce il
mondo”. All’esterno la postura è cambiata insieme al racconto. Per anni la Cina
ha preferito “nascondere la forza e aspettare il momento”. Con Xi l’ora è
suonata. La Nuova Via della Seta ha cucito porti, ferrovie e corridoi
energetici dall’Asia all’Africa, disegnando attorno a Pechino una geografia di
interdipendenze. A questo si è affiancato un linguaggio nuovo: “comunità dal
destino condiviso”, “civiltà diverse ma eguali”, “sicurezza indivisibile”. È la
proposta di un ordine multipolare in cui nessuna potenza — soprattutto gli
Stati Uniti — possa definire da sola le regole. La Cina si presenta come
partner pragmatico del Sud globale, meno interessata a esportare un modello
politico che a scambiare infrastrutture per influenza. Ma ogni espansione porta
con sé resistenze: i Paesi debitori chiedono trasparenza, l’Europa si difende
con indagini e dazi mirati, Washington costruisce cordoni tecnologici attorno a
chip e dati. La competizione è “a bassa intensità alta”: poche bandiere issate,
moltissimi standard contesi. Sullo sfondo la partita più sensibile resta
Taiwan. Per Pechino è una questione di sovranità e storia, il tassello mancante
della “rinascita nazionale”; per l’isola è la continuità del proprio sistema
politico; per gli Stati Uniti è il cuore di un equilibrio regionale e di
filiere tecnologiche decisive. Xi ha innalzato il livello di pressione,
militare e simbolica, ma ha anche interesse a evitare incidenti non
controllabili. La strategia è tenere aperti i canali e alzare i costi di una
rottura, mostrando che il tempo gioca per la Cina. È un equilibrio instabile, e
proprio per questo richiede nervi saldi a tutte le capitali. Il capitolo dei
diritti e delle libertà è quello in cui lo sguardo occidentale inciampa più
spesso. Hong Kong ha visto restringersi lo spazio civico, lo Xinjiang resta al
centro di critiche severe e di smentite altrettanto ferme, il cyberspazio è
vigilato con strumenti che intrecciano sicurezza, ideologia e industria. Xi
considera questa architettura una protezione necessaria in un Paese vastissimo,
con diseguaglianze interne e un passato segnato dal trauma del caos politico. I
suoi critici la vedono come il prezzo pagato in pluralismo, creatività e
fiducia degli investitori. Sul piano militare, la modernizzazione dell’Esercito
Popolare segue tappe scandite e obiettivi nitidi: forza congiunta, dominio
dell’informazione, proiezione marittima. Non è un riarmo cieco, è un riarmo
coerente con l’idea di potenza “di livello mondiale” entro metà secolo. Questo
riarmo non significa necessariamente cercare lo scontro: significa voler
sedersi a tavoli dove, senza hard power, la voce di Pechino sarebbe più bassa. Quali
sono allora gli obiettivi, al di là degli slogan? Nel breve: rimettere in sesto
la domanda interna senza riaccendere bolle, stabilizzare il credito locale,
dare fiducia a famiglie e imprese. Nel medio: conquistare autonomia nei colli
di bottiglia tecnologici, salire di gamma nell’export, gestire con misura la
Via della Seta di “seconda generazione” (meno quantità, più qualità). Nel
lungo: arrivare al 2049 con una Cina ricca, ordinata, rispettata; un Paese che
non solo fabbrica, ma progetta; che non solo vende, ma detta regole; che non
solo cresce, ma distribuisce. Le prospettive dipendono da incastri sottili. Se
la “prosperità comune” diventa un’altra parola per dir “paternalismo
economico”, l’innovazione si inaridisce. Se la “doppia circolazione” scivola
nell’autosufficienza autarchica, la scala cinese perde ossigeno globale. Se la
competizione con gli Stati Uniti si irrigidisce in blocchi chiusi,
l’interdipendenza smette di essere un
cuscinetto. Ma se, al contrario, Pechino riuscirà a calibrare regole chiare e
margini di libertà, se il welfare sosterrà davvero i consumi, se i nodi
tecnologici verranno sciolti senza muri invalicabili, allora il progetto di Xi
non è affatto impossibile: è la versione cinese di una modernità ordinata, con
i suoi costi e i suoi dividendi. In fondo, il giudizio su Xi e sulla Cina si
gioca da un lato sulla capacità di mobilitare risorse, costruire
infrastrutture, dettare priorità; dall’altro sulla flessibilità necessaria a
un’epoca che cambia in fretta. Il sogno cinese è un bene condiviso e il Partito
il suo custode, ma anche fuori dai confini deve convincere senza chiedere in
cambio silenzio o deferenza. Tra queste due verità, politiche ed economiche, si
deciderà il peso della Cina nel mondo — e il posto di Xi nella storia del suo
Paese. Roberto Rapaccini
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