Quando si parla di
Iran e Stati Uniti, ogni relativa tensione è potenzialmente fonte di gravi
esiti. In queste settimane la situazione
sembra andare oltre le ordinarie frizioni.
Il rafforzamento delle forze militari statunitensi nel Golfo Persico non
è un semplice gesto dimostrativo: è un chiaro segnale che Washington si sta
preparando al peggiore degli scenari o, quantomeno, vuole farlo credere. Nello
stesso tempo la diplomazia fatica a trovare spazio. Gli Stati Uniti chiedono
negoziati diretti sul nucleare, ma Teheran temporeggia preferendo un approccio
più generico e defilato, mediato da interlocutori europei o da alleati arabi.
Il programma nucleare iraniano continua ad avanzare. Secondo l’intelligence di
alcuni Paesi occidentali l’Iran sarebbe ormai molto vicino a raggiungere un
livello di arricchimento dell’uranio sufficiente alla produzione di un’arma
nucleare. Con il ritorno di
Trump alla Casa Bianca si sta affermando una nuova strategia: è stato abbandonato
ogni tentativo di compromesso e si è ripristinata la politica della coercizione
con la minaccia di dure iniziative. L'Iran promette rappresaglie devastanti
attraverso le sue milizie regionali: gli Houthi nello Yemen, gli Hezbollah in Libano, e vari gruppi sciiti
attivi in Siria e Iraq. In mezzo resta la popolazione civile, destinata a
pagare il prezzo più alto in qualunque scenario. Tuttavia, né Washington né
Teheran vogliono una guerra totale. Gli Stati Uniti sanno bene che un conflitto
aperto, soprattutto dopo il parziale disimpegno dal Medio Oriente negli ultimi
anni, sarebbe estremamente costoso e impopolare. L’Iran è consapevole che un'escalation militare su
vasta scala potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza del regime. Eppure,
come spesso accade nelle crisi internazionali, il pericolo maggiore non è nelle
intenzioni dichiarate, ma nelle escalation accidentali. Una scintilla, un
errore di calcolo, un incidente imprevisto potrebbero innescare una deriva
fuori controllo. Serve una leadership capace di abbassare i toni e di creare
spazi di negoziato, anche se minimi. Ogni settimana che passa senza un tavolo
di dialogo aumenta esponenzialmente il rischio di una catastrofe. In questo
clima di altissima tensione tra Stati Uniti e Iran, gli analisti delineano tre possibili
scenari per i prossimi mesi. Il primo scenario, considerato il più probabile, è
un ritorno alla diplomazia. Nonostante i toni duri e i preparativi
militari, i due Paesi, come già detto, non
hanno un reale interesse a spingersi fino a uno scontro aperto. Gli Stati Uniti
non vogliono impantanarsi in un nuovo conflitto in Medio Oriente, mentre per l'Iran
una guerra su larga scala sarebbe devastante per la stabilità interna. In
questo contesto per costruire una soluzione di compromesso potrebbero aprirsi
canali indiretti di dialogo, ad esempio attraverso Oman o Qatar da sempre
mediatori discreti ed efficaci. Una delle ipotesi possibili è una moratoria
tecnica: Teheran sospenderebbe l’arricchimento dell’uranio oltre una soglia
critica, mentre Washington congelerebbe l’imposizione di nuove sanzioni
economiche. Sarebbe un accordo minimo, probabilmente fragile, ma sufficiente a
evitare il disastro e a guadagnare tempo. Tuttavia, anche in caso di successo,
la tregua resterebbe estremamente vulnerabile ed esposta a provocazioni e
incidenti. Il secondo scenario è quello di un'escalation limitata o
controllata. Se la via diplomatica dovesse fallire o arenarsi, entrambe le
parti potrebbero scegliere di mantenere alta la pressione reciproca senza però
oltrepassare la soglia della guerra totale. In pratica, si assisterebbe a una
serie di attacchi mirati: gli Stati Uniti potrebbero colpire infrastrutture
militari iraniane o, più probabilmente, le milizie filoiraniane attive in
Yemen, Libano, Siria o Iraq. L'Iran risponderebbe intensificando il sostegno alle
milizie alleate della regione, oppure ricorrendo ad attacchi cyber e sabotaggi
contro interessi occidentali. Saremmo di fronte a un conflitto per procura, una
vera e propria ‘proxy war’, in cui nessuna delle due parti attaccherebbe
direttamente l'altra in modo plateale; resterebbe elevato il rischio di errore
o di escalation incontrollata. Per far precipitare la situazione basterebbe un
raid mal calcolato, una vittima civile di troppo, o un errore di
identificazione. Questo scenario risponde all'esigenza per entrambe le parti di
evitare una perdita di credibilità, non
assumendosi nello stesso tempo la responsabilità di una guerra aperta. È una
soluzione intrinsecamente instabile: mantenere una guerra a bassa intensità
richiede una precisione e un controllo politico che, nella pratica, sono spesso
difficili da garantire. Il terzo scenario è il più temuto, ma anche il meno
probabile, ovvero lo scoppio di un conflitto militare diretto tra Stati Uniti e
Iran. Potrebbe essere innescato da un grave attacco contro una base americana, da
un attentato sanguinoso contro interessi israeliani attribuito a Teheran, o da un
bombardamento errato che provochi una strage. In una situazione del genere
l'amministrazione americana non potrebbe sottrarsi a una risposta militare. Un'operazione
su vasta scala contro l’Iran non si limiterebbe a colpire impianti nucleari e
basi militari; di conseguenza scatenerebbe una devastante reazione iraniana.
Teheran potrebbe bloccare lo Stretto di Hormuz, lanciare missili su Israele
attraverso Hezbollah e attivare i suoi alleati regionali contro gli Stati Uniti
e i partner del Golfo. Le conseguenze sarebbero catastrofiche: crollo
dell'economia globale, prezzi del petrolio alle stelle, destabilizzazione
dell'intero Medio Oriente e una gigantesca crisi umanitaria. Nonostante questo
scenario resti per il momento relativamente improbabile, il rischio esiste e
cresce ogni giorno che passa senza un concreto progresso diplomatico. Se
dovessimo tracciare una linea di tendenza, oggi il quadro più realistico è
quello di una negoziazione imposta dalle circostanze. Ma la situazione resta
estremamente fluida: basta un errore, anche piccolo, per precipitare verso
un'escalation o, peggio, verso la guerra. In un contesto così instabile diventa
essenziale monitorare alcuni ‘indizi rivelatori’. Il primo è l’attività
diplomatica silenziosa: visite improvvise di emissari, aperture inattese da
parte di Oman, Qatar o dei Paesi europei potrebbero indicare un tentativo
concreto di raffreddare le tensioni. Il secondo segnale da monitorare sarà l’intensità
delle operazioni militari condotte da gruppi alleati iraniani: un aumento degli
attacchi degli Houthi contro navi commerciali o di Hezbollah contro Israele
sarebbe un indicatore di un’escalation crescente. Un terzo elemento riguarda i
movimenti del Pentagono: un ulteriore rafforzamento delle forze militari
statunitensi nella regione indicherebbe preparativi concreti per un possibile
conflitto. Sarà cruciale anche prestare attenzione a eventuali annunci
ufficiali iraniani sul programma nucleare, soprattutto se dovesse emergere
l'intenzione di arricchire l’uranio oltre il 60%. Infine, sarà fondamentale
osservare Israele: se da Tel Aviv dovessero arrivare dichiarazioni esplicite
sul diritto all'autodifesa preventiva, ci troveremmo di fronte a una minaccia
immediata di escalation. Il prossimo trimestre sarà decisivo. Siamo su una
linea sottile, dove diplomazia e deterrenza si intrecciano in un equilibrio
estremamente fragile e precario. Il futuro prossimo dipenderà dalla capacità di
entrambe le parti di evitare che accada l'irreparabile. Il margine di manovra è
ormai molto ridotto. La posta in gioco è alta e la linea che separa una tregua instabile
da una catastrofe regionale si fa sempre più sottile. RR
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
martedì 8 aprile 2025
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