RASSEGNA STAMPA S.

RASSEGNA STAMPA S.
Clicca sull'immagine
• Il Passato sarà un buon rifugio, ma il Futuro è l'unico posto dove possiamo andare. (Renzo Piano) •

PAESI DELLA LEGA ARABA

PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

martedì 8 aprile 2025

TRA STATI UNITI E IRAN, È ETERNA CRISI “SOSPESA” FRA DIPLOMAZIA E GUERRA



Quando si parla di Iran e Stati Uniti, ogni relativa tensione è potenzialmente fonte di gravi esiti.  In queste settimane la situazione sembra andare oltre le ordinarie frizioni.  Il rafforzamento delle forze militari statunitensi nel Golfo Persico non è un semplice gesto dimostrativo: è un chiaro segnale che Washington si sta preparando al peggiore degli scenari o, quantomeno, vuole farlo credere. Nello stesso tempo la diplomazia fatica a trovare spazio. Gli Stati Uniti chiedono negoziati diretti sul nucleare, ma Teheran temporeggia preferendo un approccio più generico e defilato, mediato da interlocutori europei o da alleati arabi. Il programma nucleare iraniano continua ad avanzare. Secondo l’intelligence di alcuni Paesi occidentali l’Iran sarebbe ormai molto vicino a raggiungere un livello di arricchimento dell’uranio sufficiente alla produzione di un’arma nucleare. Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca si sta affermando una nuova strategia: è stato abbandonato ogni tentativo di compromesso e si è ripristinata la politica della coercizione con la minaccia di dure iniziative. L'Iran promette rappresaglie devastanti attraverso le sue milizie regionali: gli Houthi nello Yemen,  gli Hezbollah in Libano, e vari gruppi sciiti attivi in Siria e Iraq. In mezzo resta la popolazione civile, destinata a pagare il prezzo più alto in qualunque scenario. Tuttavia, né Washington né Teheran vogliono una guerra totale. Gli Stati Uniti sanno bene che un conflitto aperto, soprattutto dopo il parziale disimpegno dal Medio Oriente negli ultimi anni, sarebbe estremamente costoso e impopolare. L’Iran è consapevole che un'escalation militare su vasta scala potrebbe mettere a rischio la sopravvivenza del regime. Eppure, come spesso accade nelle crisi internazionali, il pericolo maggiore non è nelle intenzioni dichiarate, ma nelle escalation accidentali. Una scintilla, un errore di calcolo, un incidente imprevisto potrebbero innescare una deriva fuori controllo. Serve una leadership capace di abbassare i toni e di creare spazi di negoziato, anche se minimi. Ogni settimana che passa senza un tavolo di dialogo aumenta esponenzialmente il rischio di una catastrofe. In questo clima di altissima tensione tra Stati Uniti e Iran, gli analisti delineano tre possibili scenari per i prossimi mesi. Il primo scenario, considerato il più probabile, è un ritorno alla diplomazia. Nonostante i toni duri e i preparativi militari,  i due Paesi, come già detto, non hanno un reale interesse a spingersi fino a uno scontro aperto. Gli Stati Uniti non vogliono impantanarsi in un nuovo conflitto in Medio Oriente, mentre per l'Iran una guerra su larga scala sarebbe devastante per la stabilità interna. In questo contesto per costruire una soluzione di compromesso potrebbero aprirsi canali indiretti di dialogo, ad esempio attraverso Oman o Qatar da sempre mediatori discreti ed efficaci. Una delle ipotesi possibili è una moratoria tecnica: Teheran sospenderebbe l’arricchimento dell’uranio oltre una soglia critica, mentre Washington congelerebbe l’imposizione di nuove sanzioni economiche. Sarebbe un accordo minimo, probabilmente fragile, ma sufficiente a evitare il disastro e a guadagnare tempo. Tuttavia, anche in caso di successo, la tregua resterebbe estremamente vulnerabile ed esposta a provocazioni e incidenti. Il secondo scenario è quello di un'escalation limitata o controllata. Se la via diplomatica dovesse fallire o arenarsi, entrambe le parti potrebbero scegliere di mantenere alta la pressione reciproca senza però oltrepassare la soglia della guerra totale. In pratica, si assisterebbe a una serie di attacchi mirati: gli Stati Uniti potrebbero colpire infrastrutture militari iraniane o, più probabilmente, le milizie filoiraniane attive in Yemen, Libano, Siria o Iraq. L'Iran risponderebbe intensificando il sostegno alle milizie alleate della regione, oppure ricorrendo ad attacchi cyber e sabotaggi contro interessi occidentali. Saremmo di fronte a un conflitto per procura, una vera e propria ‘proxy war’, in cui nessuna delle due parti attaccherebbe direttamente l'altra in modo plateale; resterebbe elevato il rischio di errore o di escalation incontrollata. Per far precipitare la situazione basterebbe un raid mal calcolato, una vittima civile di troppo, o un errore di identificazione. Questo scenario risponde all'esigenza per entrambe le parti di evitare  una perdita di credibilità, non assumendosi nello stesso tempo la responsabilità di una guerra aperta. È una soluzione intrinsecamente instabile: mantenere una guerra a bassa intensità richiede una precisione e un controllo politico che, nella pratica, sono spesso difficili da garantire. Il terzo scenario è il più temuto, ma anche il meno probabile, ovvero lo scoppio di un conflitto militare diretto tra Stati Uniti e Iran. Potrebbe essere innescato da un grave attacco contro una base americana, da un attentato sanguinoso contro interessi israeliani attribuito a Teheran, o da un bombardamento errato che provochi una strage. In una situazione del genere l'amministrazione americana non potrebbe sottrarsi a una risposta militare. Un'operazione su vasta scala contro l’Iran non si limiterebbe a colpire impianti nucleari e basi militari; di conseguenza scatenerebbe una devastante reazione iraniana. Teheran potrebbe bloccare lo Stretto di Hormuz, lanciare missili su Israele attraverso Hezbollah e attivare i suoi alleati regionali contro gli Stati Uniti e i partner del Golfo. Le conseguenze sarebbero catastrofiche: crollo dell'economia globale, prezzi del petrolio alle stelle, destabilizzazione dell'intero Medio Oriente e una gigantesca crisi umanitaria. Nonostante questo scenario resti per il momento relativamente improbabile, il rischio esiste e cresce ogni giorno che passa senza un concreto progresso diplomatico. Se dovessimo tracciare una linea di tendenza, oggi il quadro più realistico è quello di una negoziazione imposta dalle circostanze. Ma la situazione resta estremamente fluida: basta un errore, anche piccolo, per precipitare verso un'escalation o, peggio, verso la guerra. In un contesto così instabile diventa essenziale monitorare alcuni ‘indizi rivelatori’. Il primo è l’attività diplomatica silenziosa: visite improvvise di emissari, aperture inattese da parte di Oman, Qatar o dei Paesi europei potrebbero indicare un tentativo concreto di raffreddare le tensioni. Il secondo segnale da monitorare sarà l’intensità delle operazioni militari condotte da gruppi alleati iraniani: un aumento degli attacchi degli Houthi contro navi commerciali o di Hezbollah contro Israele sarebbe un indicatore di un’escalation crescente. Un terzo elemento riguarda i movimenti del Pentagono: un ulteriore rafforzamento delle forze militari statunitensi nella regione indicherebbe preparativi concreti per un possibile conflitto. Sarà cruciale anche prestare attenzione a eventuali annunci ufficiali iraniani sul programma nucleare, soprattutto se dovesse emergere l'intenzione di arricchire l’uranio oltre il 60%. Infine, sarà fondamentale osservare Israele: se da Tel Aviv dovessero arrivare dichiarazioni esplicite sul diritto all'autodifesa preventiva, ci troveremmo di fronte a una minaccia immediata di escalation. Il prossimo trimestre sarà decisivo. Siamo su una linea sottile, dove diplomazia e deterrenza si intrecciano in un equilibrio estremamente fragile e precario. Il futuro prossimo dipenderà dalla capacità di entrambe le parti di evitare che accada l'irreparabile. Il margine di manovra è ormai molto ridotto. La posta in gioco è alta e la linea che separa una tregua instabile da una catastrofe regionale si fa sempre più sottile. RR