RASSEGNA STAMPA S.

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PAESI DELLA LEGA ARABA

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TESTO SC.

La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

sabato 8 febbraio 2025

TRUMP, I DAZI, LA CRISI IN MEDIOORIENTE: PRESSIONI ECONOMICHE O DESTABILIZZAZIONE?


L'uso da parte dell'amministrazione Trump di misure economiche coercitive per raggiungere obiettivi di politica estera, come è avvenuto recentemente con la Colombia per risolvere alcune tensioni riguardo alle politiche migratorie, è stato ben accolto negli Stati Uniti. Tuttavia, la prospettazione più ampia di imporre dazi indiscriminati anche contro alleati come Canada e Messico potrebbe avere gravi ripercussioni sulle aspettative di politica estera. Gli alleati si allontanerebbero e i partner commerciali cercherebbero altri mercati.  Recentemente in maniera molto generica sono state ipotizzate misure commerciali sanzionatorie anche nei confronti dell’Egitto e della Giordania. Ecco la sequenza degli eventi. Il 26 gennaio u.s. Trump prospetta il piano di un esodo forzato dalla Striscia di Gaza di un milione e mezzo di persone, ipotizzando il coinvolgimento attivo di alcune nazioni arabe “per costruire abitazioni in un altro luogo, dove forse i palestinesi avrebbero potuto finalmente vivere in pace”. Il 28 gennaio u.s. viene specificato che Egitto e Giordania potrebbero essere i destinatari dell’accoglienza di questi profughi. Il 30 gennaio u.s. rispondendo ad una specifica domanda sulla possibilità di imporre oneri commerciali nei confronti di Egitto e Giordania per ottenere il loro favore al menzionato piano, Trump avrebbe affermato in maniera generica di poter confidare nel loro supporto. Da quanto è stato premesso si rilevano due importanti elementi. Innanzitutto, a differenza di quanto prefigurato da Israele circa un'eventuale partenza volontaria dei palestinesi, Trump prevede una migrazione forzata. Inoltre, il Presidente americano non sembra escludere di usare strumenti economici come dazi, tagli agli aiuti, stop alla vendita di armi, boicottaggi e altro, per costringere Egitto e Giordania ad accettare i profughi. Le esternazioni di Trump hanno suscitato un'ondata di indignazione nel mondo arabo. I ministri degli Esteri di Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Qatar, insieme a rappresentanti dell'Autorità Palestinese e della Lega Araba, hanno respinto ogni ipotesi di trasferimento della popolazione di Gaza, condannando ogni tentativo di violare i diritti inalienabili dei palestinesi attraverso insediamenti, espulsioni, demolizioni di case, annessioni o deportazioni forzate. Senza far riferimento a Trump, i predetti Paesi hanno precisato che queste iniziative minacciano la stabilità della regione, rischiano di allargare il conflitto, compromettono le prospettive di pace e convivenza. Il presidente egiziano Abdel Fatah el-Sisi è stato ancora più diretto, affermando che lo spostamento dei palestinesi nel suo Paese non sarebbe né tollerato né consentito per ragioni di sicurezza nazionale, lasciando intendere che questa opzione potrebbe mettere a rischio la sua stessa leadership. Un autocrate già sotto pressione non può permettersi di importare una nuova popolazione radicalizzata. Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha ribadito la stessa posizione, precisando che la Giordania è per i giordani, la Palestina è per i palestinesi. Peraltro, la Giordania per decenni ha affrontato il problema dell’estremismo palestinese. Gaza è già una polveriera; immaginare di trasferire la questione palestinese in due nazioni più grandi è un incubo geopolitico.  Come ritorsione Egitto e Giordania potrebbero surrogare gli aiuti americani con il sostegno dell’Arabia Saudita e degli altri Paesi del Golfo. Avrebbero inoltre l’appoggio diplomatico quasi unanime del mondo arabo. Potrebbero persino rivolgersi alla Cina. Indubbiamente minacciare indiscriminatamente tutti con sanzioni economiche e commerciali potrebbe indebolire la posizione degli Stati Uniti nel mondo. Se Trump continuerà a usare i dazi come principale strumento di diplomazia o politica estera, americani e alleati ne pagheranno il prezzo. C’è tuttavia un’ipotesi da considerare. Donald Trump più che uno statista è un imprenditore; pertanto, le ipotesi prospettate ad Egitto e Giordania potrebbero essere un tentativo per forzare un negoziato sulla questione palestinese. Rimangono forti dubbi sulla possibilità che questa strategia possa funzionare o produrre risultati duraturi.  Donald Trump avrebbe anche affermato che non si deve ricostruire la Striscia di Gaza per le stesse persone che l’hanno abitata. Mentre sarebbe necessario trovare nuovi Paesi disposti ad accogliere i palestinesi, destinandoli in comunità moderne e sicure che offrirebbero loro un futuro migliore rispetto a quello che avrebbero avuto in una Gaza distrutta, nei piani di Trump gli Stati Uniti prenderebbero il controllo della Striscia di Gaza, la bonificherebbero dalle armi inesplose, raderebbero al suolo gli edifici distrutti per costruire un nuovo polo economico, creando migliaia di posti di lavoro e alloggi. Secondo il Presidente americano questa iniziativa porterebbe stabilità non solo a Gaza ma all’intero Medio Oriente, mentre Gaza diventerebbe la Riviera del Medio Oriente. Trump propone un piano utopico e irrealistico, basato su un’emigrazione forzata e su una presunta accettazione da parte dei Paesi arabi. Tuttavia, le reazioni di Egitto e Giordania dimostrano che il mondo arabo non ha alcuna intenzione di accettare il trasferimento dei palestinesi. Questa possibile strategia politica americana potrebbe avere come esito quello di destabilizzare ulteriormente il Medio Oriente e di isolare gli Stati Uniti dai suoi alleati storici. A questo punto è lecito chiedersi se le vicende del conflitto a Gaza e i suoi sviluppi recenti rendono superati gli Accordi di Abramo (che avevano l’obiettivo di normalizzare le relazioni diplomatiche tra Israele e il mondo arabo) firmati nel 2020 tra Israele e diversi Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein, Marocco e Sudan) con la mediazione degli Stati Uniti. Il conflitto tra Israele e Hamas, scoppiato nell’ottobre 2023 e proseguito con una violenza senza precedenti, ha avuto un effetto devastante sulle relazioni tra Israele e il mondo arabo. I Paesi firmatari degli Accordi di Abramo, pur mantenendo formalmente i rapporti con Tel Aviv, si sono trovati in difficoltà di fronte all’opinione pubblica interna, fortemente contraria alle azioni israeliane.  Più in particolare, gli Emirati Arabi Uniti hanno espresso critiche dure nei confronti di Israele pur senza rompere le relazioni. Il Bahrein ha richiamato il proprio ambasciatore e congelato alcuni aspetti della cooperazione bilaterale. Il Marocco, tradizionalmente cauto, ha dovuto rivedere il proprio avvicinamento a Israele per non alimentare tensioni interne. Il Sudan, già in una situazione instabile a causa della guerra civile, ha sostanzialmente messo in pausa qualsiasi evoluzione dei rapporti con Israele. Uno dei grandi obiettivi degli Accordi di Abramo era quello di portare anche l’Arabia Saudita a normalizzare le relazioni con Israele. Tuttavia, il conflitto a Gaza ha reso questa prospettiva molto più difficile. Riyad, sotto la guida di Mohammed bin Salman, aveva mostrato segnali di apertura, ma le pressioni interne e regionali hanno spinto il governo saudita a riconsiderare la sua opzione. L’Arabia Saudita ha ribadito il sostegno alla causa palestinese, affermando che non ci sarà alcuna normalizzazione con Israele senza una soluzione credibile per i palestinesi. Nel frattempo, la Cina e la Russia stanno aumentando la loro influenza nel Golfo, offrendo alternative geopolitiche agli Stati arabi e riducendo di fatto il peso delle pressioni statunitensi. In conclusione, gli Accordi di Abramo non sono stati cancellati, ma la loro efficacia come strumento di pace e stabilità regionale è fortemente ridimensionata.