L'uso da parte
dell'amministrazione Trump di misure economiche coercitive per raggiungere
obiettivi di politica estera, come è avvenuto recentemente con la Colombia per
risolvere alcune tensioni riguardo alle politiche migratorie, è stato ben
accolto negli Stati Uniti. Tuttavia, la prospettazione più ampia di imporre
dazi indiscriminati anche contro alleati come Canada e Messico potrebbe avere
gravi ripercussioni sulle aspettative di politica estera. Gli alleati si
allontanerebbero e i partner commerciali cercherebbero altri mercati. Recentemente in maniera molto generica sono
state ipotizzate misure commerciali sanzionatorie anche nei confronti dell’Egitto
e della Giordania. Ecco la sequenza degli eventi. Il 26 gennaio u.s. Trump prospetta
il piano di un esodo forzato dalla Striscia di Gaza di un milione e mezzo di
persone, ipotizzando il coinvolgimento attivo di alcune nazioni arabe “per
costruire abitazioni in un altro luogo, dove forse i palestinesi avrebbero potuto
finalmente vivere in pace”. Il 28 gennaio u.s. viene specificato che Egitto e
Giordania potrebbero essere i destinatari dell’accoglienza di questi profughi. Il
30 gennaio u.s. rispondendo ad una specifica domanda sulla possibilità di
imporre oneri commerciali nei confronti di Egitto e Giordania per ottenere il
loro favore al menzionato piano, Trump avrebbe affermato in maniera generica di
poter confidare nel loro supporto. Da quanto è stato premesso si rilevano due
importanti elementi. Innanzitutto, a differenza di quanto prefigurato da
Israele circa un'eventuale partenza volontaria dei palestinesi, Trump prevede
una migrazione forzata. Inoltre, il Presidente americano non sembra escludere
di usare strumenti economici come dazi, tagli agli aiuti, stop alla vendita di
armi, boicottaggi e altro, per costringere Egitto e Giordania ad accettare i
profughi. Le esternazioni di Trump hanno suscitato un'ondata di indignazione
nel mondo arabo. I ministri degli Esteri di Egitto, Giordania, Arabia Saudita e
Qatar, insieme a rappresentanti dell'Autorità Palestinese e della Lega Araba,
hanno respinto ogni ipotesi di trasferimento della popolazione di Gaza,
condannando ogni tentativo di violare i diritti inalienabili dei palestinesi attraverso
insediamenti, espulsioni, demolizioni di case, annessioni o deportazioni
forzate. Senza far riferimento a Trump, i predetti Paesi hanno precisato che
queste iniziative minacciano la stabilità della regione, rischiano di allargare
il conflitto, compromettono le prospettive di pace e convivenza. Il presidente
egiziano Abdel Fatah el-Sisi è stato ancora più diretto, affermando che lo
spostamento dei palestinesi nel suo Paese non sarebbe né tollerato né
consentito per ragioni di sicurezza nazionale, lasciando intendere che questa opzione
potrebbe mettere a rischio la sua stessa leadership. Un autocrate già sotto
pressione non può permettersi di importare una nuova popolazione radicalizzata.
Il ministro degli Esteri giordano Ayman Safadi ha ribadito la stessa posizione,
precisando che la Giordania è per i giordani, la Palestina è per i palestinesi.
Peraltro, la Giordania per decenni ha affrontato il problema dell’estremismo
palestinese. Gaza è già una polveriera; immaginare di trasferire la questione
palestinese in due nazioni più grandi è un incubo geopolitico. Come ritorsione Egitto e Giordania potrebbero
surrogare gli aiuti americani con il sostegno dell’Arabia Saudita e degli altri
Paesi del Golfo. Avrebbero inoltre l’appoggio diplomatico quasi unanime del
mondo arabo. Potrebbero persino rivolgersi alla Cina. Indubbiamente minacciare
indiscriminatamente tutti con sanzioni economiche e commerciali potrebbe
indebolire la posizione degli Stati Uniti nel mondo. Se Trump continuerà a
usare i dazi come principale strumento di diplomazia o politica estera,
americani e alleati ne pagheranno il prezzo. C’è tuttavia un’ipotesi da
considerare. Donald Trump più che uno statista è un imprenditore; pertanto, le
ipotesi prospettate ad Egitto e Giordania potrebbero essere un tentativo per
forzare un negoziato sulla questione palestinese. Rimangono forti dubbi sulla
possibilità che questa strategia possa funzionare o produrre risultati
duraturi. Donald Trump avrebbe anche
affermato che non si deve ricostruire la Striscia di Gaza per le stesse persone
che l’hanno abitata. Mentre sarebbe necessario trovare nuovi Paesi disposti ad
accogliere i palestinesi, destinandoli in comunità moderne e sicure che
offrirebbero loro un futuro migliore rispetto a quello che avrebbero avuto in
una Gaza distrutta, nei piani di Trump gli Stati Uniti prenderebbero il
controllo della Striscia di Gaza, la bonificherebbero dalle armi inesplose,
raderebbero al suolo gli edifici distrutti per costruire un nuovo polo
economico, creando migliaia di posti di lavoro e alloggi. Secondo il Presidente
americano questa iniziativa porterebbe stabilità non solo a Gaza ma all’intero
Medio Oriente, mentre Gaza diventerebbe la Riviera del Medio Oriente. Trump
propone un piano utopico e irrealistico, basato su un’emigrazione forzata e su
una presunta accettazione da parte dei Paesi arabi. Tuttavia, le reazioni di
Egitto e Giordania dimostrano che il mondo arabo non ha alcuna intenzione di
accettare il trasferimento dei palestinesi. Questa possibile strategia politica
americana potrebbe avere come esito quello di destabilizzare ulteriormente il
Medio Oriente e di isolare gli Stati Uniti dai suoi alleati storici. A questo
punto è lecito chiedersi se le vicende del conflitto a Gaza e i suoi sviluppi
recenti rendono superati gli Accordi di Abramo (che avevano l’obiettivo di
normalizzare le relazioni diplomatiche tra Israele e il mondo arabo) firmati
nel 2020 tra Israele e diversi Paesi arabi (Emirati Arabi Uniti, Bahrein,
Marocco e Sudan) con la mediazione degli Stati Uniti. Il conflitto tra Israele
e Hamas, scoppiato nell’ottobre 2023 e proseguito con una violenza senza
precedenti, ha avuto un effetto devastante sulle relazioni tra Israele e il
mondo arabo. I Paesi firmatari degli Accordi di Abramo, pur mantenendo
formalmente i rapporti con Tel Aviv, si sono trovati in difficoltà di fronte
all’opinione pubblica interna, fortemente contraria alle azioni israeliane. Più in particolare, gli Emirati Arabi Uniti
hanno espresso critiche dure nei confronti di Israele pur senza rompere le
relazioni. Il Bahrein ha richiamato il proprio ambasciatore e congelato alcuni
aspetti della cooperazione bilaterale. Il Marocco, tradizionalmente cauto, ha
dovuto rivedere il proprio avvicinamento a Israele per non alimentare tensioni
interne. Il Sudan, già in una situazione instabile a causa della guerra civile,
ha sostanzialmente messo in pausa qualsiasi evoluzione dei rapporti con
Israele. Uno dei grandi obiettivi degli Accordi di Abramo era quello di portare
anche l’Arabia Saudita a normalizzare le relazioni con Israele. Tuttavia, il
conflitto a Gaza ha reso questa prospettiva molto più difficile. Riyad, sotto
la guida di Mohammed bin Salman, aveva mostrato segnali di apertura, ma le
pressioni interne e regionali hanno spinto il governo saudita a riconsiderare
la sua opzione. L’Arabia Saudita ha ribadito il sostegno alla causa
palestinese, affermando che non ci sarà alcuna normalizzazione con Israele
senza una soluzione credibile per i palestinesi. Nel frattempo, la Cina e la
Russia stanno aumentando la loro influenza nel Golfo, offrendo alternative
geopolitiche agli Stati arabi e riducendo di fatto il peso delle pressioni
statunitensi. In conclusione, gli Accordi di Abramo non sono stati cancellati,
ma la loro efficacia come strumento di pace e stabilità regionale è fortemente
ridimensionata.
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
sabato 8 febbraio 2025
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