L’arresto e il
rilascio di Najeem Osama Almasri, comandante della
polizia libica, rappresentano un caso emblematico in cui Ragion di Stato, Realpolitik
e Ordinamento internazionale si sovrappongono, sollevando interrogativi su
quali siano i confini tra sicurezza e giustizia internazionale. L’episodio ha
acceso polemiche e messo in luce le difficoltà di bilanciare strategia politica
e rispetto delle norme giuridiche. I fatti sono noti e ampiamente discussi, ma
restano interpretazioni divergenti, condizionate da letture polarizzate ideologicamente.
Arrestato a Torino in esecuzione di un mandato della Corte Penale
Internazionale (CPI), Almasri era accusato di crimini contro l’umanità per il
suo ruolo nella prigione di Mitiga, luogo tristemente noto per torture e abusi.
L’operazione sembrava inizialmente un atto di cooperazione tra l’Italia e la
giustizia internazionale, un segnale chiaro contro l’impunità,
indipendentemente da rapporti diplomatici o convenienze politiche. Ragion di
Stato e diritto internazionale sembravano allinearsi: l’Italia, membro
dell’accordo per l’istituzione della Corte, avrebbe eseguito il mandato senza
esitazioni. Ma poche ore dopo il ribaltamento: la Corte d’Appello di Roma ha
dichiarato irrituale il fermo, sostenendo che il mandato necessitava di
un'autorizzazione preventiva del Ministero della Giustizia. Ne è seguita la
scarcerazione e il rimpatrio su un volo di Stato. Qui emerge la logica della
Realpolitik: il governo italiano, probabilmente consapevole delle implicazioni
diplomatiche, ha scelto di non compromettere i rapporti con la Libia, partner
strategico per il controllo dei flussi migratori e per la stabilità mediterranea.
Con il rilascio di Almasri si è privilegiato il pragmatismo politico. In
proposito, prima del suo arresto in Italia Almasri, avrebbe intrapreso un viaggio attraverso diverse
città europee. Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche il libico sarebbe
partito da Tripoli il 6 gennaio con un volo diretto a Londra, dove è rimasto
per circa una settimana. Il 13 gennaio si sarebbe spostato in treno a
Bruxelles, per poi proseguire in auto verso Bonn, in Germania, e
successivamente a Monaco di Baviera. Durante il suo soggiorno tedesco, sarebbe
stato sottoposto a un controllo stradale dalla polizia locale, ma sarebbe stato
lasciato proseguire poiché al momento non era stato ancora emesso il mandato di
arresto nei suoi confronti. Il 16 gennaio avrebbe noleggiato un'auto con
l'intenzione di riconsegnarla a Fiumicino, in Italia. Il 18 gennaio è giunto a
Torino, dove ha assistito alla partita Juventus-Milan. Il giorno successivo, 19
gennaio, è stato arrestato dalla polizia italiana in esecuzione del mandato
emesso dalla Corte Penale Internazionale il 18 gennaio 2025, il giorno in cui
il libico è giunto a Torino. Questa tempistica induce a ritenere che solo il 18
gennaio e non prima la Corte Penale Internazionale ha avuto tutti gli elementi
necessari per chiedere l’arresto. Il rilascio del libico ha provocato la
reazione della CPI che ha denunciato il mancato rispetto degli obblighi di
cooperazione giudiziaria. L’episodio solleva una questione cruciale: fino a che
punto uno Stato può sacrificare il rispetto delle regole per proteggere i
propri interessi? La giustizia internazionale può essere subordinata a
valutazioni politiche? Se la Ragion di Stato può giustificare scelte difficili
per garantire la stabilità del Paese, quando diventa uno strumento per aggirare
la giustizia, la credibilità dello Stato nel rispetto degli accordi
internazionali potrebbe uscirne compromessa. Quali sono i limiti della Ragion
di Stato? Trattati come la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
impongono vincoli precisi, impedendo che la Ragion di Stato diventi un pretesto
per giustificare abusi. Il controllo democratico è essenziale: Parlamento e Magistratura
devono vigilare non travalicando l’ambito delle attribuzioni e delle competenze
istituzionali. Anche il dibattito in seno all’opinione pubblica può svolgere un
ruolo importante purché ispirato a serena obiettività. Rileva anche il
principio di proporzionalità: le misure adottate per Ragion di Stato devono
essere adeguate alla minaccia, evitando limitazioni ingiustificate. La
trasparenza è un altro cardine che però deve tener conto del fatto che non
tutto può essere rivelato. La cultura della totale trasparenza delle attività
dello Stato è un’utopia, quando entrano in gioco sicurezza nazionale, protezione
della privacy, necessità di riservatezza in ambiti strategici. Inoltre, la
complessità dei dati renderebbe difficile una comprensione chiara per tutti.
Anche il rischio di manipolazione politica e resistenze interne impediscono
un’apertura totale. Tuttavia, in una democrazia la trasparenza rimane uno
strumento di grande importanza: sapere come vengono prese le decisioni e come
vengono gestite le risorse pubbliche è essenziale per il controllo democratico.
Ma, come già affermato in precedenza, questo non significa che lo Stato debba
rivelare tutto. Esistono ambiti in cui il segreto è indispensabile. Segnatamente,
pensiamo alla sicurezza nazionale: rivelare informazioni riservate su
operazioni militari, strategie di difesa o piani antiterrorismo potrebbe
mettere a rischio la stabilità del Paese e la vita di molte persone. Lo stesso
vale per le iniziative dei servizi segreti, che richiedono la discrezione al
fine di garantire efficacia alle attività istituzionalmente attribuite. Anche la
diplomazia si fonda su una certa riservatezza. Gli accordi internazionali più
delicati spesso vengono negoziati in segreto prima di essere resi pubblici. Se
tutto venisse rivelato immediatamente, le trattative potrebbero saltare,
compromettendo la possibilità di trovare soluzioni a crisi politiche o
conflitti. Un altro campo in cui la segretezza è necessaria è quello delle
indagini giudiziarie. Durante un’indagine su crimini complessi, il segreto
istruttorio protegge il corretto svolgimento della giustizia, evitando che le
informazioni trapelate possano inquinare le prove o permettere ai responsabili
di sfuggire alla legge. Anche in situazioni di emergenza, come una pandemia, i
governi a volte decidono di rilasciare le informazioni gradualmente per evitare
il panico e garantire una gestione più efficace della crisi. Tuttavia, se da un
lato la segretezza è talvolta indispensabile, dall’altro non deve diventare uno
strumento di abuso di potere o per privilegiare interessi personali. Qui sta il
punto centrale: lo Stato non deve rivelare tutto, ma deve rendere conto delle
proprie scelte. Oltre al Parlamento e alla magistratura, esistono altri
strumenti per garantire un controllo sulla gestione delle informazioni
riservate. In particolare, il giornalismo investigativo deve avere la libertà
di indagare su questioni di interesse pubblico, senza il rischio di censure o
ritorsioni. E i cittadini devono poter accedere a documenti e informazioni che,
dopo un certo periodo, vengono declassificati, permettendo di analizzare le
scelte compiute dai governi nel tempo. In definitiva, non si può pretendere che
lo Stato renda pubbliche tutte le informazioni in tempo reale, ma è essenziale
che esista un meccanismo di trasparenza e controllo. La segretezza è
accettabile solo se finalizzata alla tutela dell’interesse collettivo e mai
come strumento per aggirare la legge o nascondere decisioni discutibili. La
vera sfida sta nel trovare il giusto equilibrio: proteggere la sicurezza senza
sacrificare la fiducia dei cittadini. Perché in una democrazia, più un governo
è trasparente, più i cittadini saranno disposti ad accettare che alcune cose,
per un certo tempo, restino riservate.
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
sabato 1 febbraio 2025
IL CASO ALMASRI: TRA RAGION DI STATO, REALPOLITIK, ORDINAMENTO INTERNAZIONALE
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