Ci
sono fili invisibili che attraversano il tempo e lo spazio, annodando
esperienze lontane eppure speculari. Uno di questi fili lega la diaspora nera e
il popolo palestinese, due comunità che, in epoche diverse e sotto forme
differenti, hanno conosciuto l’oppressione sistemica, la segregazione, la
negazione dei diritti fondamentali. È una solidarietà che non si è mai limitata
alle dichiarazioni di principio, ma che ha saputo trasformarsi in visione
politica, in alleanza militante e oggi anche in azione diplomatica. Negli Stati
Uniti degli anni Sessanta, mentre la lotta per i diritti civili scuoteva le
fondamenta della democrazia americana, figure come Malcolm X invitavano a
guardare oltre i confini nazionali; in un discorso del 1964 si ricordava che il
colonialismo non era finito, aveva solo cambiato volto, indicando nei popoli
del Terzo Mondo, inclusi i palestinesi, alleati naturali della causa nera.
Stokely Carmichael, che in seguito avrebbe assunto il nome di Kwame Ture,
spinse ancora più in là questa intuizione. Nel 1967 affermò che il destino dei
neri in America è inseparabile dal destino dei popoli colonizzati nel mondo
(segnatamente quelli africani). Non era una metafora, ma la traduzione di un
sentimento profondo: riconoscere sé stessi nelle catene dell’altro. Le Pantere
Nere furono tra i primi movimenti a trasformare queste parole in pratica
politica. Delegazioni palestinesi furono invitate agli incontri del partito,
volantini di sostegno all’OLP circolavano nei ghetti di Oakland e Chicago, e
testi come The Black Panther descrivevano la Palestina come un
laboratorio dell’oppressione coloniale. Per Huey Newton e i suoi compagni, la
repressione nei territori occupati era lo specchio della repressione nelle
strade americane. In Africa il parallelismo risuonava ancora più potente.
Thomas Sankara, leader rivoluzionario del Burkina Faso, sottolineava come la
lotta palestinese ricorda che il colonialismo non muore da solo: va abbattuto
con la volontà dei popoli. Nelson Mandela, simbolo universale della resistenza
antiapartheid, fu altrettanto esplicito. Nel 1997, in un discorso a Pretoria,
disse: “Sappiamo troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la
libertà dei palestinesi.” Quelle parole, pronunciate dall’uomo che aveva
sconfitto il regime dell’apartheid, divennero un manifesto morale, un’eco che
attraversò continenti. Non a caso, nel 1988, quando Yasser Arafat proclamò lo
Stato di Palestina, quarantatré Paesi africani e caraibici furono tra i primi a
riconoscerlo ufficialmente. Col passare del tempo, questa solidarietà non si è
spenta, ma ha cambiato linguaggi e forme. Il nuovo millennio l’ha riportata al
centro attraverso le piazze del movimento Black Lives Matter. Dopo l’uccisione
di George Floyd nel 2020, migliaia di cartelli con scritto …From Ferguson to
Gaza… comparvero nei cortei. Non era solo uno slogan, ma un atto politico: le
stesse logiche di controllo, militarizzazione e brutalità venivano riconosciute
e denunciate simultaneamente. Black Lives Matter, pur consapevole delle
critiche, non esitò a schierarsi a favore del BDS (Boicottaggio,
Disinvestimento e Sanzioni - Boycott, Divestment, Sanctions), il movimento
internazionale di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro Israele. Il
movimento fu creato nel 2005 dopo
un appello di oltre 170 organizzazioni della società civile palestinese. La sua
ispirazione diretta era la campagna internazionale che negli anni Settanta e
Ottanta contribuì alla fine dell’apartheid in Sudafrica: come allora la
pressione dal basso, fatta di boicottaggi e isolamento culturale, economico e
sportivo, aveva incrinato le fondamenta del regime razzista sudafricano, così oggi
il BDS avrebbe mirato a ottenere il
rispetto dei diritti fondamentali del popolo palestinese attraverso strumenti
non violenti di pressione. Gli obiettivi sono tre e si fondano sul diritto
internazionale: la fine dell’occupazione dei territori palestinesi iniziata nel
1967; il riconoscimento dell’uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele,
ancora oggi soggetti a discriminazioni sistemiche; il rispetto del diritto al
ritorno dei profughi e dei loro discendenti, sancito dalla Risoluzione ONU 194.
Per raggiungere questi traguardi è stato promosso il boicottaggio di prodotti e
istituzioni israeliane, il disinvestimento da aziende e fondi che traggono
profitto dall’occupazione e l’imposizione di sanzioni da parte di Stati, come
l’embargo militare o la sospensione di accordi di cooperazione. Negli anni il
movimento ha ottenuto alcuni risultati significativi: numerose università e
sindacati, in particolare nel Regno Unito, negli Stati Uniti e in Sudafrica,
hanno approvato mozioni di disinvestimento; alcune grandi imprese hanno
ritirato investimenti e progetti nei territori occupati dopo anni di campagne
pubbliche; nei Paesi del Sud globale il sostegno alla causa palestinese – anche
attraverso la sensibilizzazione BDS - è diventato parte integrante delle
piattaforme politiche postcoloniali. “Non possiamo chiedere giustizia per noi
stessi e voltare lo sguardo davanti all’ingiustizia inflitta ad altri popoli”,
dichiararono alcuni leader. Il presente
ha reso questa connessione ancora più urgente. Gaza, devastata dai
bombardamenti, con decine di migliaia di vittime civili e interi quartieri rasi
al suolo, è diventata il nuovo volto dell’oppressione globale. Nel gennaio 2024
il Sudafrica ha scelto di portare Israele davanti alla Corte Internazionale di
Giustizia, accusandolo di genocidio. È stato un gesto di rottura, un ponte
diretto tra la memoria dell’apartheid e la condizione palestinese. La scena
giuridica internazionale ha così accolto la voce di un Paese africano che si è
fatto erede delle lotte dei popoli oppressi, trasformando la solidarietà in
strumento legale e diplomatico. Anche nel mondo culturale afroamericano, la
riflessione si è intensificata. Ta-Nehisi Coates, uno degli autori più
influenti del pensiero nero contemporaneo, ha raccontato la sua esperienza in
Cisgiordania: “Quello che ho visto richiama il regime Jim Crow. Una democrazia
che si proclama tale, ma che priva milioni di persone dei diritti fondamentali.”
La sua testimonianza ha riportato la questione palestinese nel cuore del
dibattito intellettuale statunitense, confermando che la solidarietà non è solo
un fatto politico, ma anche culturale e morale. Questa alleanza transnazionale
si proietta nel futuro con tre conseguenze. In primo luogo, la compattezza
della diplomazia africana, che mantiene saldo il sostegno a Ramallah, può
ridisegnare gli equilibri del Sud globale. In secondo luogo, la pressione
giuridica aperta dal Sudafrica all’Aia rappresenta un precedente che altri Paesi
potrebbero seguire, incrinando l’impunità di cui Israele ha goduto per decenni.
Infine, la mobilitazione culturale e politica delle comunità nere, negli Stati
Uniti come in Europa, garantisce che la questione palestinese resti viva nello
spazio pubblico, impedendo che venga silenziata o relegata ai margini. Alla
radice di tutto resta però un imperativo etico. Kwame Ture lo disse con
chiarezza: “La Palestina è la punta dell’Africa.” Era un modo per ricordare che
la lotta per la libertà non conosce confini, che le catene di uno sono le
catene di tutti. Oggi, in un mondo segnato da nuove polarizzazioni, la voce
della solidarietà nera risuona come un contrappunto alla retorica delle
potenze: ci ricorda che nessuna democrazia è vera se costruita sull’esclusione,
e che nessuna liberazione sarà completa finché un popolo resterà oppresso. È in
questo intreccio di memorie e di lotte che si gioca il futuro non solo della
Palestina, ma di ogni progetto universale di giustizia. RR
APPUNTI su ISLAM e MONDO ARABO (e dintorni) di Roberto Rapaccini
Grammatica del mondo islamico, Medio Oriente, dialogo interreligioso, interetnico e multiculturale, questioni di geopolitica, immigrazione.
PAESI DELLA LEGA ARABA

TESTO SC.
martedì 19 agosto 2025
DALLA SEGREGAZIONE A GAZA, LA MARCIA DELLA SOLIDARIETÀ NERA VERSO I PALESTINESI
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