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PAESI DELLA LEGA ARABA

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La differenza tra propaganda e istruzione viene spesso così definita: la propaganda impone all’uomo ciò che deve pensare, mentre l’istruzione insegna all’uomo come dovrebbe pensare. (Sergej Hessen)

venerdì 21 novembre 2025

CONFLITTO ISRAELO-PALESTINESE: SITUAZIONE ATTUALE A NOVEMBRE 2025 - PROSPETTIVE 4. Scenari futuri più probabili (2025)

Guardando al prossimo futuro il conflitto israelo-palestinese potrebbe evolvere secondo diversi scenari. Di seguito ne analizziamo quattro – continuazione della guerra, tregua prolungata, accordo di pace negoziato, conflitto congelato – valutando quali siano le prospettive più plausibili e perché.

·       Continuazione del conflitto: uno scenario è la ripresa su vasta scala delle ostilità. Ciò potrebbe avvenire se saltasse l’attuale cessate il fuoco, ad esempio per un grave incidente o per il fallimento dei colloqui in corso. In tal caso Israele tornerebbe a condurre operazioni militari intensive a Gaza (o addirittura su altri fronti, come il Libano, qualora Hezbollah intervenisse), e Hamas riprenderebbe i lanci di razzi e gli attacchi riportando la regione nello stato di guerra aperta. Questo esito sarebbe catastrofico per i civili, dati i livelli di distruzione già raggiunti. Purtroppo è una possibilità da non escludere: se il processo diplomatico dovesse arenarsi, molti analisti avvertono che le due parti potrebbero scivolare di nuovo nel ciclo di violenza e rappresaglie che ha già causato tanto sangue. Basterebbe un attentato o un errore di calcolo a far crollare la tregua, poiché la sfiducia reciproca resta altissima e gli elementi più radicali (da entrambe le parti) potrebbero tentare di sabotare un accordo percepito come sfavorevole.

·       Cessate il fuoco prolungato: in alternativa, è possibile che l’attuale tregua si mantenga nel tempo, senza però sfociare subito in un accordo di pace formale. In questo scenario le armi resterebbero in gran parte silenti e si eviterebbero nuove campagne militari, ma la pace rimarrebbe incompiuta. Israele e Hamas – pur diffidenti – continuerebbero a rispettare un cessate il fuoco tacito o esplicito per mesi (se non anni), magari rinnovandolo periodicamente con la mediazione internazionale. Ci sarebbero indubbi benefici: la popolazione di Gaza avrebbe tregua dai bombardamenti e più accesso agli aiuti, mentre in Israele cesserebbe l’incubo dei razzi e dei tunnel incursori. Tuttavia, si tratterebbe di una stabilità precaria e punteggiata da incidenti isolati: ad esempio, lungo la nuova linea di demarcazione istituita a Gaza, l’esercito israeliano ha già dovuto fronteggiare infiltrazioni o proteste, e in alcuni casi ha aperto il fuoco uccidendo civili palestinesi che si avvicinavano troppo alle zone interdette. Un cessate il fuoco prolungato somiglierebbe dunque a una tregua armata, in cui ciascun lato rimane fortemente armato e pronto a reagire al minimo segnale di minaccia. Questa situazione permetterebbe di guadagnare tempo: tempo per la ricostruzione (parziale) di Gaza, per alleviare la crisi umanitaria e per intavolare negoziati più strutturati. Ma senza un quadro politico risolutivo il conflitto potrebbe riesplodere in qualsiasi momento. Molti ritengono comunque che, nell’immediato, questa sia l’evoluzione più probabile: entrambe le parti sono provate da due anni di guerra e la pressione internazionale per mantenere la calma è forte, quindi una prosecuzione della tregua – per quanto instabile – appare uno scenario realistico a breve termine.

·       Pace negoziata: lo scenario idealmente auspicabile sarebbe quello di una pace concordata e duratura. In questo caso l’attuale cessate il fuoco evolverebbe gradualmente in un accordo di più ampio respiro che metterebbe fine al conflitto armato. Gli elementi chiave di una pace negoziata includerebbero: il disarmo o la smilitarizzazione di Hamas a Gaza (con contestuale rinuncia israeliana alle operazioni offensive), l’affidamento dell’amministrazione di Gaza a un’autorità palestinese legittimata (si discute di un possibile ritorno dell’Autorità Nazionale Palestinese, magari con il supporto di Stati arabi, oppure di un governo tecnico locale supervisionato dall’esterno), e garanzie di sicurezza sia per Israele sia per la popolazione di Gaza. In ambito ONU, ad esempio, si sta valutando una proposta in base alla quale una forza internazionale guidata dagli Stati Uniti e da altri Paesi possa garantire la sicurezza a Gaza per un periodo transitorio con l’idea di restituire poi il controllo della Striscia a un’Autorità Palestinese riformata entro il 2027. Un accordo di pace di questo genere dovrebbe inoltre affrontare le questioni di fondo: il futuro politico di Gaza e Cisgiordania (verso un possibile Stato palestinese indipendente), il destino dei coloni israeliani nei territori occupati, lo status di Gerusalemme e il diritto al ritorno dei profughi palestinesi. In sostanza riaprirebbe il dossier storico israelo-palestinese per trovare una soluzione complessiva a due stati. Si tratta di un percorso irto di ostacoli. L’attuale piano in discussione contiene condizioni molto difficili da attuare per entrambe le parti – dismissione dell’arsenale di Hamas, profonda riorganizzazione politica a Gaza, concessioni territoriali da parte di Israele – e molti punti ripropongono nodi già rivelatisi in passato quasi insolubili. Non sorprende dunque che gli esperti mantengano cautela. Resta una domanda aperta: se questo porterà davvero alla fine della guerra nonostante i punti più delicati siano ancora da definire. Una pace negoziata in definitiva sarebbe la soluzione più stabile e vantaggiosa (permetterebbe di concentrarsi sullo sviluppo economico e la convivenza pacifica), ma è anche la più difficile da raggiungere in tempi brevi. Richiederebbe un livello di fiducia reciproca e di cooperazione – o quantomeno la forte imposizione di garanti esterni – che al momento né Israele né la leadership di Hamas sembrano avere. È plausibile che questo scenario possa iniziare a concretizzarsi solo attraverso passi incrementali e sotto costante pressione internazionale, se la tregua reggerà tanto a lungo da far maturare le condizioni politiche necessarie.

·       Conflitto congelato: un ultimo possibile esito è quello di una situazione di stallo prolungato, spesso definita come conflitto congelato. In tale scenario non si raggiunge un accordo di pace formale, ma nemmeno si ritorna alle ostilità aperte: lo status quo di fatto congelerebbe la contrapposizione. Gaza rimarrebbe divisa e fortemente militarizzata: Israele potrebbe mantenere una zona cuscinetto di sicurezza lungo il perimetro e un controllo rigoroso di entrate e uscite, mentre Hamas (o ciò che ne rimane in termini di struttura armata) continuerebbe a governare parte del territorio, pur indebolito e contenuto. La Cisgiordania resterebbe sotto occupazione israeliana con la presenza di colonie e periodiche tensioni nelle città autonome palestinesi. In superficie ci sarebbe calma relativa – niente bombardamenti quotidiani, niente razzi – ma sotto coverebbe l’assenza di una risoluzione politica. Si tratterebbe, insomma, di una pace solo apparente: incidenti a bassa intensità continuerebbero a verificarsi, alimentando rancori e sofferenze senza però sfociare (finché dura il congelamento) in guerra totale. L’attuale tregua già presenta alcuni tratti di questo scenario: permane ad esempio una linea di separazione a Gaza oltre la quale gli sfollati palestinesi non possono tornare, con continue schermaglie locali e accuse reciproche di violazioni che però finora non hanno fatto deragliare completamente il cessate il fuoco. Un conflitto congelato potrebbe durare mesi o anni, cristallizzando una situazione di né pace né guerra. È uno scenario che ricorda altre aree del mondo dove i conflitti rimangono irrisolti ma sopiti (come, ad esempio, la situazione tra Israele e Hezbollah in Libano prima delle recenti escalation, o in altre regioni contese). In termini di probabilità, molti analisti lo considerano uno sbocco possibile qualora falliscano sia la soluzione negoziale sia, per ragioni di pressione esterna, l’opzione di un ritorno immediato alla guerra aperta. Sarebbe in fondo una prosecuzione a tempo indeterminato dell’attuale fragile tregua senza affrontarne le cause radicate. Un tale congelamento garantirebbe nell’immediato l’assenza di grandi offensive militari, ma non offrirebbe alcuna garanzia di stabilità a lungo termine: anzi, rischierebbe di creare uno scenario simile a una bomba a orologeria, dove il conflitto può riesplodere violentemente al mutare del contesto politico o al primo incidente grave.

In conclusione, tra questi scenari quello più realistico nel breve periodo appare una via di mezzo tra il cessate il fuoco prolungato e il conflitto congelato. Dopo due anni di combattimenti devastanti, né Israele né Hamas (né tantomeno la popolazione civile stremata) hanno interesse immediato a ripiombare nella guerra totale, soprattutto sotto lo sguardo attento di Stati Uniti e attori regionali. Una tregua duratura ma precaria potrebbe quindi continuare, con tensioni gestite giorno per giorno. Allo stesso tempo, la strada verso una pace negoziata e completa è lastricata di ostacoli: serviranno probabilmente tempo, pressioni coordinate e concessioni dolorose perché si realizzi un accordo stabile – obiettivo che, a novembre 2025, rimane ancora lontano. Il rischio di una ripresa del conflitto rimane comunque sullo sfondo: affinché non si materializzi, sarà fondamentale mantenere vivo lo slancio diplomatico internazionale (dagli USA ai mediatori arabi ed europei) e offrire alle parti in conflitto prospettive credibili di sicurezza e dignità – unica alternativa concreta al ripetersi ciclico della violenza. In sintesi, il conflitto Israelo-Palestinese a fine 2025 è in bilico: sospeso tra la fine di una guerra sanguinosa e l’incertezza di un futuro ancora da scrivere, nella speranza che dalle macerie di Gaza e dalle tensioni di Gerusalemme possa finalmente emergere un percorso verso una pace giusta e duratura. Roberto Rapaccini