Negli
ultimi mesi il Medio Oriente è tornato al centro delle tensioni globali e
l’Iran, uno dei suoi fulcri strategici, sta affrontando la crisi più grave
dalla nascita della Repubblica Islamica. L’intensificarsi delle operazioni
militari israeliane, sostenute in modo più o meno esplicito dagli Stati Uniti di
Donald Trump, ha messo sotto pressione un regime già logorato da anni di
isolamento, difficoltà economiche e crescente dissenso interno. Oggi più che
mai il futuro politico dell’Iran appare incerto. La possibilità di un crollo
del sistema teocratico, a lungo considerata remota, è divenuta una prospettiva
reale. In questo scenario emergono interrogativi cruciali: che forma potrebbe
assumere un Iran post-islamico? Quale sarebbe il ruolo della Russia, finora
partner strategico di Teheran? E chi potrebbe incarnare la guida del Paese in
una fase così delicata? Per decenni la Repubblica Islamica ha resistito a
guerre, sanzioni internazionali e proteste popolari. Eppure, la crisi attuale
ha caratteristiche diverse: colpisce contemporaneamente la legittimità interna
e la tenuta del sistema sul piano geopolitico. La fiducia della popolazione si
è assottigliata. Le grandi proteste del 2019 e quelle esplose nel 2022 dopo la
morte di Mahsa Amini hanno rivelato una frattura profonda tra le nuove
generazioni e l’establishment religioso. Una crescente parte della società
iraniana rifiuta il fondamento teocratico del regime e auspica un cambiamento
strutturale. A confermare questa tendenza sono anche le indagini condotte da
GAMAAN – un centro di ricerca indipendente con sede nei Paesi Bassi – che
attraverso sondaggi anonimi online riesce a misurare l’opinione pubblica
iraniana aggirando la censura e godendo di indipendenza politica: questo
garantisce un livello di neutralità e oggettività spesso difficile da ottenere
in contesti autoritari come l’Iran. Secondo i suoi dati, la maggioranza dei
cittadini, soprattutto tra gli adulti istruiti, auspica un sistema laico e
democratico, rifiutando esplicitamente forme di governo basate sulla religione.
Sul piano economico e sociale il Paese è stremato. L’inflazione galoppa oltre
il 40%, la disoccupazione giovanile resta cronica, l’accesso a Internet è
fortemente limitato e i media indipendenti sono pressoché inesistenti. Anche
l’apparato repressivo mostra segni di logoramento: le fratture tra i Pasdaran –
la Guardia Rivoluzionaria – e le forze di sicurezza ordinarie si fanno sempre
più visibili. All’esterno la situazione è altrettanto critica. Le
infrastrutture strategiche, incluse quelle nucleari e militari, sono state
colpite da attacchi israeliani. Il nuovo corso della politica americana,
tornata sotto la guida di Trump, ha abbandonato ogni logica negoziale, puntando
con chiarezza a un cambio di regime. Gli alleati regionali dell’Iran – come
Hezbollah o le milizie sciite in Siria e Iraq – sono oggi più deboli, spesso
presi di mira o in ritirata. In questo contesto la Russia ha giocato un ruolo
visibile ma ambivalente. Dopo l’invasione dell’Ucraina Mosca ha rafforzato i
rapporti con Teheran, ricevendo droni e supporto tecnologico, e offrendo in
cambio collaborazione diplomatica ed economica. Tuttavia, questa alleanza ha
sempre avuto un carattere opportunistico. Non esistono legami culturali
profondi tra i due Paesi, né un’ideologia condivisa. Il trattato firmato nel
gennaio 2025, pur presentato come strategico, non prevede alcuna clausola di
mutua difesa. Anzi, Mosca ha più volte evitato di fornire all’Iran armamenti
richiesti, segno di una volontà di non esporsi troppo. L’atteggiamento del Cremlino
riflette una precisa priorità: non compromettere il proprio margine di manovra
con gli Stati Uniti e non distrarre risorse dal conflitto in Ucraina. Secondo
fonti diplomatiche la Russia cercherà semmai di proteggere i propri interessi
sul terreno, negoziando con qualunque nuovo attore emerga, ma senza impegnarsi
nella difesa attiva del regime attuale. In questo senso lo scenario che si
prospetta per l’Iran richiama da vicino quanto accaduto in Siria dopo
l’indebolimento del regime di Assad: una perdita d’influenza per Mosca, senza
contropartite. Nel frattempo, si moltiplicano le ipotesi su chi potrebbe
guidare il Paese nel caso di una caduta del sistema attuale. Tre scenari si
delineano con maggiore chiarezza. Il primo, e probabilmente più immediato, è
quello di un governo di transizione guidato dai Pasdaran. Forte della sua
struttura capillare e del controllo su settori chiave dell’economia e della
sicurezza, la Guardia Rivoluzionaria potrebbe decidere di sacrificare il potere
religioso per preservare la propria centralità. Il clero verrebbe così
emarginato e il potere passerebbe a una forma di autoritarismo militare
secolarizzato, simile a quanto avvenuto in Egitto con l’ascesa di al-Sisi. Un
simile assetto potrebbe garantire ordine a breve termine, ma rischierebbe di
aggravare il distacco tra istituzioni e società civile, ormai sempre meno
disposta ad accettare forme di governo autoritarie. Il secondo scenario, più
ambizioso ma anche più fragile, è quello di una transizione democratica
promossa da forze laiche. La base sociale di questo progetto esiste: nelle
università, tra le donne, nella diaspora, tra attivisti e intellettuali, si è
consolidato un movimento che auspica un Iran pluralista, secolare e rispettoso
dei diritti fondamentali. Tuttavia, questa galassia di opposizione soffre di
frammentazione, mancanza di una guida condivisa e scarsa capacità operativa sul
territorio. Senza un sostegno esterno forte e senza garanzie di non ingerenza
da parte dei militari, la possibilità di vedere affermarsi una vera democrazia
resta incerta, anche se non impossibile. Infine, vi è una terza ipotesi, di
natura più simbolica che strutturale: il ritorno sulla scena pubblica di Reza Cyrus
Pahlavi, figlio dell’ultimo Scià. Negli ultimi anni, il suo nome è tornato a
circolare soprattutto tra i giovani e nella diaspora. Pahlavi non chiede
esplicitamente la restaurazione della monarchia, ma si propone come figura di
raccordo per una fase di transizione, sulla scia di quanto accadde in Spagna
con Juan Carlos. Il suo ruolo potrebbe essere quello di garante morale, non di
leader politico. Ma anche qui i limiti sono evidenti: manca una base
organizzata all’interno del Paese, il nome Pahlavi divide ancora l’opinione
pubblica, e il contesto attuale richiede risposte più strutturate che
simboliche. Queste tre ipotesi non si escludono a vicenda. Una transizione
complessa potrebbe attraversare più fasi: un primo momento di controllo
militare, seguito da aperture democratiche, fino all’emergere di figure di
mediazione capaci di tenere insieme il tessuto nazionale. Quel che è certo è
che l’Iran si trova davanti a una svolta storica. La Repubblica Islamica non è
più intoccabile. Il contesto interno ed esterno spinge verso un cambiamento
che, sebbene incerto nei tempi e nei modi, appare sempre meno evitabile. In
questo scenario la Russia difficilmente potrà giocare un ruolo determinante.
Lontana per cultura e priva di leve politiche durature in Iran, Mosca assisterà
con preoccupazione al crollo di un alleato strategico, cercando di salvare ciò
che può. Il rischio per il Cremlino è quello di vedere svanire, in pochi mesi,
anni di investimenti politici e infrastrutturali. La domanda, dunque, non è più
se il regime iraniano sopravvivrà, ma chi guiderà il Paese dopo di esso. La
risposta dipenderà tanto dalle forze in campo quanto dalla capacità degli
attori interni ed esterni di accompagnare una transizione pacifica, legittima e
duratura. La partita è aperta e il suo esito ridisegnerà il Medio Oriente per
gli anni a venire.
Roberto Rapaccini